AMERICA FIRST riflessione di Luca Pressato

Negli ultimi mesi sono successe molte cose che hanno reso il mondo ancora più caotico ed instabile rispetto a come veniva percepito dagli europei fino a pochi anni fa. A questi fatti si aggiunge la vittoria di Donald J. Trump all’elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Il neopresidente, insediato pochi giorni fa, ha già attirato a se una serie impressionante di proteste e di timori fin dal giorno dell’annuncio della sua vittoria all’elezioni.

Tralasciando la questione di queste proteste “preventive” che infiammano le principali città americane da due mesi, andiamo ad analizzare le motivazioni di questa paura verso un personaggio che ancora, di fatto, non ha avuto il tempo di fare nulla da presidente. Senza dubbio il disagio che provoca, in Europa, è dovuto alla sua campagna elettorale politicamente scorretta ed inusuale sotto certi punti di vista.

Nel Vecchio Continente ormai ci siamo acclimatati, nel bene e nel male, ad una condizione subalterna (politicamente, economicamente e militarmente) a quella degli Stati Uniti che rappresentano il modello democratico e sociale a cui tendere. Sono considerati il grande baluardo della “libertà” nel mondo ed anche come i grandi protettori dell’Europa. È da qui che bisogna partire per capire i timori che molti cittadini europei hanno. Trump molto semplicemente rappresenta una discontinuità storica rispetto al periodo della Guerra Fredda, in cui l’Europa Occidentale era “forzatamente” legata agli Stati Uniti per la presenza di un nemico comune, e agli ultimi 25 anni in cui lo strapotere americano non ha avuto rivali e sembrava ineguagliabile, infatti, dopo la caduta del Muro di Berlino, sono state formulate varie teorie, prima fra tutte la teoria di Francis Fukuyama “La fine della Storia e l’ultimo uomo”, che vedevano il progresso storico ormai generalmente terminato e la costituzione di un ordine mondiale, democratico e liberale, troppo forte per essere sconfitto.

Anche se queste teorie non sono conosciute dalle grandi masse d’Italia, Francia, Germania, Spagna, e degli altri paesi europei, erano sostanzialmente percepite come vere dai più per tutti gli anni ’90 e per buona parte di questo inizio del nuovo millennio.

Avere un presidente statunitense che dichiara di voler chiudere le frontiere, di smettere di fornire aiuti economici ad altri paesi, di ridimensionare la NATO e di non sentirsi obbligato a difendere l’Europa in caso d’aggressione fa crollare le certezze che fino a pochi anni fa non erano in dubbio per gli europei. A ciò va aggiunto che Trump ha vinto le elezioni dicendo queste cose e ciò dimostra che non è “un pazzo isolato” ma che una buona metà degli americani è convinta dell’opportunità di tali misure.

Ciò è difficile da concepire per un europeo perché l’europeo sostanzialmente non conosce l’americano. In Europa ci si immagina gli Stati Uniti come New York, Chicago, Las Vegas e Los Angeles. Non si conosce l’americano medio che è radicalmente diverso da chi vive in queste grandi città.

Se noi andiamo ad analizzare i diversi movimenti politici nati negli Stati Uniti da dopo la loro nascita notiamo che ne esistono molti con l’obiettivo di “limitare” la politica estera. Il popolo americano, “dell’America profonda”, non ha interesse nelle questioni di altri paesi e vede con diffidenza chi viene da fuori. Questo aspetto è sostanzialmente sconosciuto in Europa e traspare soltanto in alcuni film e serie televisive solitamente sotto forma di un vecchio contadino del sud diffidente e scontroso.

Un esempio concreto di questa tendenza può essere rappresentato dal grande movimento politico fondato da Charles Augustus Lindbergh, noto per essere stato il primo ad attraversare l’atlantico con un aereo, che nel 1940 fonda l’America First Committee, un movimento che vuole contrastare la linea interventista del presidente Roosevelt in favore di un forte isolazionismo.

Questa tendenza “isolazionista” esiste nella classe media americana dovuto in buona parte all’esaltazione che viene fatta dell’America stessa e, per estensione, del luogo di nascita, indipendentemente se sia una grande città della costa o il paesino sperduto al centro del continente.

La questione è fortemente radicata nella cultura americana. Se osserviamo la vita di un campione di uomini e donne provenienti dagli stati centrali come il Kansas, l’Oklahoma, l’Alabama o il Minnesota scopriamo che molti di loro sono nati e cresciti nella solita cittadina senza mai uscirne, tranne per gli anni dell’università o per il servizio militare, e lì trovano lavoro e si fanno una famiglia. Si ha un forte senso d’appartenenza che rimane anche nell’impostazione culturali della minoranza che decide di vivere in una delle grandi città. Nelle scuole si ha un forte attaccamento ai colori delle squadre sportive cittadine che vengono esaltate indipendentemente dal numero di vittorie e di sconfitte.

Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi questo sentimento è stato “represso” in funzione di una lotta contro un potente nemico che necessitava di una politica più aperta verso l’esterno allo scopo di crearsi degli alleati ed impedire al nemico di farsene a sua volta. Questo nemico veniva percepito come un aggressore che attacca senza aver ricevuto nessuna provocazione spinto dall’odio verso lo “stile di vita democratico” e la “libertà”. Ovvero il Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, seguito poi da Germania e Italia, e dall’Unione Sovietica fino all’inizio degli anni ’90. Senza dubbio questo stereotipo del “nemico” è funzionale anche a politiche aggressive volte a smantellare preventivamente delle ipotetiche minacce.

Ora che non esiste più un nemico esterno che abbia queste caratteristiche sta riemergendo questa tendenza alla chiusura di buona parte del popolo americano nonostante la politica federale abbia cercato di costruirne altri per mantenere più facilmente la politica di potenza; infatti il terrorismo islamico, anche se pericoloso, non può essere paragonato come pericolosità all’Unione Sovietica o al Giappone degli anni ’40.

Il ripresentarsi di questo sentimento ha, nei fatti, creato Trump e le sue idee politiche perché è stato il candidato che meglio ha saputo interpretare questo desiderio, anche meglio della dirigenza del suo partito che è troppo legata ad interessi particolari che godono dei benefici della politica di potenza.

Senza dubbio la sua vittoria sta facendo emergere tutte le contraddizioni e le diversità della società americana portando anche alla luce tutti i difetti, in senso democratico, del sistema elettorale e dello Stato federale americano. Possiamo dire, infatti, che in virtù della propria struttura gli Stati Uniti siano la repubblica più perfetta e la democrazia più imperfetta perché il sistema ha una netta separazione dei poteri, rispettando perfettamente i principi descritti da Montesquieu sulla loro distribuzione, ed è organizzato in modo tale da non potersi inceppare, ma allo stesso tempo è non da abbastanza spazio alla rappresentatività della minoranza a causa del sistema elettorale che proprio alle ultime elezioni ha permesso, paradossalmente, la vittoria del candidato che ha preso numericamente parlando meno voti ma che ha vinto più seggi.

Ora tutto sta a vedere come il presidente Trump agirà, se e come manterrà le proprie promesse, se rappresenterà una reale discontinuità storica e cosa sarà in grado di produrre tale discontinuità nel bene e nel male.

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